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Giovedì 14 novembre 2024

Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria

   
   

   

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20/11/2015

AAA: Ariosto, Alessandria e l’Armagnac

Pubblico il pezzo con il quale ho partecipato al Premio Marchiaro, vinto da Paolo Massobrio e Ketti Porceddu. I complimenti ai due bravi colleghi. Un modesto omaggio ad una Chiesa alessandrina ormai inutilizzata

   

AAA: Ariosto, Alessandria e l’Armagnac

La seconda edizione del Premio Marchiaro è stata vinta da Paolo Massobrio e Ketti Porceddu, con due pezzi su Langhe Monferrato Roero e su alcune eccellenze della provincia. Bravi e complimenti per i loro lavori. Un grazie anche alla Giuria ed in particolare ad Emma Camagna, che so lettrice attenta e preparata degli episodi di storia locale. Anch'io ho partecipato alla seconda edizione con un "pezzo" su Alessandria, pubblicato a suo tempo dal Giornale del Piemonte. Lo ripropongo per i lettori del sito

 

PF

 

Nella città della concretezza più esasperata, non c’è spazio per leggende, magie, misteri. La cronaca si mangia la storia fino a ridurla come poltiglia illeggibile, i miti si interrompono prima di nascere e quando il loro eroismo è conclamato, imbattibile, allora si dedica loro un omaggio toponomastico. Magari un vicolo e nulla più.
Eppure l’humus sarebbe favorevole: la nebbia smargina i luoghi e il tempo. Ovatta le ore, appiattisce i giorni. I confini dei fatti possono cambiare perché uguali e sostituibili. E allora la realtà sembra diventare leggenda. Non lo sarà mai fino in fondo…
Sono così gli alessandrini ed è così la città: la loro summa. Manca un aedo? Può darsi, ma anche quando c’è, lo si guarda con sospetto. E il tempo si dimentica di se stesso, mentre la bruma lo infossa nell’oblio.
L’episodio è comunque lì, basta rileggerlo, raccoglierlo, ricantarlo.
Ariosto, Orlando Furioso, canto XXXIII. Il racconto ha ormai dipanato tutti i suoi inganni, i duelli, gli amori incompresi e irraggiungibili, i rapimenti, le magie, le sfide, gli animali mitologici: tutto è equivoco.
Alessandria è nel tempo in cui ancora non esiste. Bradamante è guerriera cristiana, figlia di Amone e di Beatrice di Montalbano e sorella di Rinaldo. Bella, sensibile e modesta, la donna è anche guerriera valorosa. È innamorata di Ruggiero guerriero pagano e il compito affidatole è quello di convertirlo al Cristianesimo. Non a caso al termine del poema si sposeranno; insieme daranno origine alla casa d’Este. Finiranno sui giornali dell’epoca, cioè i quadri dei cantastorie di piazza.
Bradamante è stata turlupinata. Ruggiero è lontano e la donna lo pensa in procinto di sposare Marfisa. Bradamante è quindi in viaggio e vuole vendicarsi di lui raggiungendo il campo dei Mori. Il cavaliere, nel frattempo è però passato ai Cristiani.
Sta per giungere la notte e Bradamante deve trovare un rifugio. La Rocca di Tristano è a poche leghe di distanza. L’accesso deve essere conquistato con le armi in pugno. Bradamante dovrà battersi con coloro che già alloggiano nel Castello. Tre re escono dalla porta per combattere. Inizia la giostra, mentre comincia a cadere una violenta pioggia. Con la lancia d’oro di Astolfo, che sbalza di sella ogni cavaliere (bella forza!) la guerriera abbatte i tre sovrani e può entrare nel Castello.
Tristano l’accoglie. Terminata la cena, Bradamante rimane nel grande salone ad ammirare i dipinti che ne rivestono le mura. Le pitture sono frutto di un incantesimo di Merlino per rappresentare scene future di guerre che verranno sostenute dai francesi in Italia, dal suo tempo fino a mille anni dopo. Perché? Per evitare ai franchi di scendere in Italia da conquistatori: una sventura per loro. Così Bradamante si trova in una sala con dipinti magici, pur sapendo che i pittori hanno sempre dipinto cose passate o presenti, mai future…
“Lor mostra (…)/scender dai monti un capitano Gallo,/e romper guerra ai gran Visconti illustri;/e con gente francesca a piè e a cavallo/par ch’Alessandria intorno cinga e lustri;/ (…)//e la gente di Francia malaccorta,/tratta con arte ove la rete è tesa,/col conte Armeniaco, la cui scorta/l’avea condotta all’infelice impresa,/giaccia per tutta la campagna morta,/parte sia tratta in Alessandria presa:/e di sangue non men che d’acqua grosso,/il Tanaro si vede il Po far rosso.”
Estate 1391. Luglio. Alessandria vive sotto i Visconti. Milano entra in Piemonte con una lama di terra per occupare la città più importante, quasi spezzando in due il Monferrato
I milanesi – in lotta con Firenze - hanno inviato un valente capitano di ventura. È Jacopo Dal Verme, originario di Venezia, poco più che quarantenne. Ha un discreto seguito di armigeri per difendere la città.
Fuori le mura le truppe di Giovanni III d’Armagnac e quelle di Giovanni Acuto si devono incontrare per muovere su Milano.
Giovanni Acuto, cioè l’inglese John Hawkwood (morto a Firenze e sepolto con gli onori nel Duomo della città del giglio), sceso in Italia al soldo del Marchese del Monferrato una trentina di anni prima, aveva ben figurato contro i Savoia, alternando alleanze e tradimenti tra Milano, Firenze e il Papato.
Tutti quindi sono in Alessandria o lì intorno per qualche solida ragione. Contrapposta, ma pur sempre ragione…
L’esercito del D’Armagnac è composto da duemila lancieri, tremila armati, un dispendio enorme di saccomanni, esperti in saccheggi, uomini senza scrupoli, manigoldi dediti all’essere pagati con moneta tratta dal ferro e dal fuoco.
Azione! Il 30 giugno il d’Armagnac si era accampato a Castellazzo e si era messo ad assediare la città. Ogni tanto tentava un attacco, sempre respinto, e, nel ritirarsi sfidava, tra irripetibili insulti, gli alessandrini ad uscire in campo aperto.
Il 25 luglio Jacopo accetta battaglia e si schiera con i suoi armigeri, dopo essere uscito da porta Genovese, in una zona ove sorgeranno un dì la Pista e il Cristo. È il giorno di San Giacomo.
Gli alessandrini si schierano avanti ai francesi. Ma sembrano indecisi. A guardarli bene, dopo la sortita, i nostri sembrano far mossa di ritirarsi, forse impauriti dalla dimostrata potenza dell’avversario. Recitano così bene questa parte sotto il sole cocente, che i nemici non hanno dubbi. Scendono da cavallo e fieri e baldanzosi, si dirigono sicuri verso gli uomini di Dal Verme. Ma questi gira le bestie e attacca d’impeto i francesi ancora a terra. Lo scontro è sanguinoso e terribile.
Intanto da porta Marengo i capitani alessandrini Tomaso Ghilini e Andreino Trotti, spalleggiati dai condottieri Calcini, Tornielli, Broglia, Brandolini escono al comando di un esercito formato dalla migliore gioventù alessandrina. Compiono un percorso ad ampio raggio e piombano alle spalle dei francesi, che rimangono sbalorditi.
Le fila del nemico si scompaginano, ma il furore della battaglia è ormai incontenibile. Le teste schizzano come birilli, il sangue si disperde in ogni luogo, uomini e cavalli rimangono infilzati e a terra, a colar di rosso vivo. Si alzano urla animalesche e grida di dolore. È una carneficina. Non ci vuol molto a veder i pochi nemici tentare la ritirata verso Castellazzo. Lo stesso d’Armagnac, sbalzato dal cavallo imbizzarrito, ferito gravemente, cade in mezzo ad alti cespugli. Viene catturato dal soldato alessandrino Benzio Besazzi e condotto in città. Le ferite riportate non gli lasciano scampo. Muore il giorno dopo, mentre in città impazza la festa per la raggiunta vittoria.
E qui succedono fatti che pensavo fossero da ascrivere solo ai poemi cavallereschi e non alla pietas che ti riconosce come grande avversario anche dopo il tuo trapasso. Perché il D’Armagnac, odiato ed inviso, riceve l’onore di essere sepolto in San Marco, una delle chiese più importanti della città, al punto che, demolito da Napoleone il Duomo di San Pietro, sarà proprio tale edificio a diventare Cattedrale.
La festa per la vittoria impazza, coinvolgendo tutta la popolazione. Accanto ai fuochi le zuppe quotidiane si arricchiscono di carni d’animale – gli stessi cavalli che erano stati soppressi in battaglia – in un vigoroso melting pot tra vecce, cicerchie, miglio, avena con fave e fagioli. Poco più in là un altro fuoco trasporta gli umori di selvaggina sapientemente arrostita per l’aria ammorbata dalle fogne a cielo aperto della città ancora solcata da rugate, le vie ove scorrevano le acque nere. È seduto il Dal Verme, il condottiero venuto dall’est, che decide di utilizzare una parte del ricco bottino di guerra per erigere una chiesa in omaggio a quel Santo di cui lui stesso porta il nome.
Si sbrigarono gli alessandrini, visto che in poco meno di tre lustri la Chiesa della Vittoria fu terminata, giusto in tempo per informarne il Dal Verme, ancora in vita, nonostante l’avventurosa esistenza.
Tuttora sorge, in quello stesso luogo, allora scelto, in fregio alla Chiesa di San Francesco e al Convento annesso dei frati Minori, pur se rimaneggiata in epoche diverse rispetto all’originale – una muratura in cotto a vista - e subito affidata agli Agostiniani. Che di lì a poco allargarono i propri possedimenti al vicino Ospedale di San Cristoforo, quasi allocato ove ora sorge piazza Garibaldi.
Nelle due edicole laterali al portale d’ingresso vi sono due rilievi: uno raffigurante San Giacomo, l’altro, appunto, San Cristoforo.
E una scritta ancora campeggia sotto la cornice di facciata, a ricordare per cosa quella Chiesa viva: “Nell’Anno di Cristo 1391, 25 luglio, nella festa di San Giacomo apostolo, la gioventù alessandrina condotta da Jacopo Dal Verme sconfisse l’esercito dei soldati francesi (Aremorica, antica regione della Gallia, Bretagna). E un tempio in questo luogo viene edificato e dedicato a San Giacomo a questa vittoria invocato affinché la consentisse.”
E il tempo, così, ritorna a se stesso e si rinfratta nella nebbia.

 

Piercarlo Fabbio

 

 

 

 

 

Piercarlo Fabbio Sindaco di Alessandria