Fosse un mero problema di conflitto di poteri, probabilmente sarebbe del tutto inutile esserci fermati a ragionare. Sarebbe
bastato negoziare ad oltranza sui tavoli delle associazioni e strappare spazi di volta in volta più consistenti. Purtroppo, invece,
oggi dobbiamo leggere il fenomeno delle lagnanze delle assemblee elettive nei confronti dei poteri monocratici in un quadro di
sempre più accentuata deistituzionalizzazione. Un percorso, quest'ultimo, che neppure i più illuminati tra coloro che vivono da
protagonisti le istituzioni, riescono a tamponare e ad attenuare. Neppure i "chierici", come li ha voluti chiamare De Rita, si sono
sottratti al tradimento delle istituzioni, inconsapevoli che il prestigio delle stesse, la loro autoreferenzialità, non bastasse a
garantirne la implicita funzione sociale.
Il risultato per il quale combattiamo, quindi, non è il puro riequilibrio dei poteri intraistituzionali, ma ciò che tale processo
garantisce alla risoluzione dei problemi della società di riferimento territoriale. In sintesi, alla società italiana.
Allora, soffermarsi a porre un giudizio sul percorso delle riforme targato anni Novanta, non solo non è inutile, ma è addirittura
indispensabile premessa. Perché, nel cammino che si irradia dalla legge 142/90, passando attraverso la 81/93, i reiterati
passaggi dei "Bassanini", fino a giungere al Testo Unico degli Enti Locali, il modello di coerenza è quello dei poteri tripartiti tra
organi monocratici, collegiali e burocrazia.
Il disegno è figlio della sua epoca. È figlio dell'instabilità politica dovuta alla transizione. Ha bisogno di certezze, che il legislatore
individua, attraverso la solita trafila pragmatica del diritto che prende atto della realtà: la governabilità diventa il valore più alto, la
mission degli Enti Locali. La velocità della decisione diviene il credo della nuova politica territoriale. E tutto il resto? Annegato
semplicemente in questi due assunti.
Ve ne è ampia giustificazione in una società del cambiamento e della conoscenza che non poteva certo ritenersi soddisfatta
dall'ennesima "riparazione" alla legge Comunale e Provinciale, pensata per una comunità nazionale ben diversa, modellata sulla
trasformazione di una sagoma agricola ad una industriale, adeguata ad una mutazione in cui la città prende decisamente il
sopravvento sulla campagna.
Eppure di molto ci si dimentica negli anni Novanta, quasi che la semplificazione non interessi solo il percorso degli atti o dei
provvedimenti. Il decisionismo si trasforma in un valore, in luogo della decisionalità, che invece sarebbe il corretto agire di una
Pubblica Amministrazione. Il decisionismo viene poi contrapposto alla rappresentatività. Il languire dei Consigli Comunali e
Provinciali e della loro importanza nel sistema autonomie locali è dovuto alla scarna influenza del valore "rappresentatività"
garantito dalla legge. Ma, se procediamo per contrapposizioni, l'attuale apparato normativo conduce ad altri errori: il
personalismo si sostituisce alla leadership (peraltro il personalismo è duplicabile ad ogni livello, la leadership ovviamente è un
dono per pochi); la velocità nel voler assumere decisioni si scontra con i ritmi più compassati della partecipazione. Infine, se la
società delle molecole, la società globalizzata della complessità è organizzata in senso orizzontale, l'istituzione si verticalizza
sempre più. Vive della sindrome del faraone, in un'epoca in cui il modello del lider maximo è mero retaggio delle società meno
libere e più povere del nostro pianeta.
Ora possiamo affermare che la grande riforma istituzionale degli Anni Novanta è mancata. E pensare che questa possa essere
stata attuata solo attraverso l'elezione diretta di Sindaci o Presidenti delle Province è questione di simpatia. Il collega Cabras,
poco prima, ha esternato senza problemi questa simpatia, ma io penso che ancora oggi permanga la necessità di mettere in
grado la società italiana di rispondere alle esigenze politiche dell'Europa unita, del mondo globale, nonché di trovare una
soluzione moderna alla crisi economica dello Stato gravato da un debito non sopportabile. Stante questo milieu, è utile ritornare ai nostri esempi. In un convegno coevo, l'on. Guido Crosetto lanciava alcune denunce che
io qui raccolgo e ripercorro.
Cosa possiamo rispondere a chi sostiene che sfida un consigliere comunale o provinciale ad incidere sulla sua realtà? O
ancora: nelle Amministrazioni pubbliche il Sindaco o il Presidente della provincia sono dei professionisti della politica, i consiglieri
o i capigruppo rimangono dei dilettanti, perché non vi è sostegno economico sufficiente alla loro attività pubblica. Entrambi sono
eletti direttamente (la legge 81/93 estendeva l'elezione diretta anche a Sindaci e Presidenti di Provincia, quando già lo si faceva
per i Consiglieri), ma ben differenti sono i loro poteri. Entrambi sono legittimati, ma nel delirio legislativo e dell'opinione pubblica
che si era dichiarata disposta a barattare un sistema dualistico di poteri (Sindaco e Consiglio, in quanto la Giunta ha una
funzione sussidiaria) con una deriva monistica, c'è qualcuno oggi che è più legittimato di altri. Eletto allo stesso modo, ma con
poteri ben differenti. E i Consigli? Organi di mera ratifica delle decisioni dell'esecutivo, incapaci di agire di vita propria, di indirizzi
e di orientamenti all'esecutivo. Il più delle volte consapevoli di questo ruolo improprio, ma parzialmente conniventi (è la storia di
tante maggioranze) per evitare che il manovratore possa essere disturbato dal cicaleccio della democrazia…
Del resto quali sono le fonti disponibili di approvvigionamento di informazioni e conoscenze sulle quali possono contare gli organi
collegiali per esercitare il ruolo alto (lo ricordavano i professori Vincenzo Cerulli Irelli e Stelio Mangiameli) della pianificazione e
della programmazione? O ancora, quali strutture conoscitive vengono messe a disposizione costante dei consiglieri, nel
momento in cui questi devono esercitare il loro potere di normazione regolamentare e statutaria?
E aggiungo che questi spazi non si conquistano nella negoziazione, che crea conflittualità, ma dovrebbero essere il luogo della
condivisione fra chi ha differenti poteri, con l'unico obiettivo di garantire maggiore democrazia al sistema.
Perché veramente oggi abbiamo un ulteriore problema: se indirizzarci a scegliere una democrazia diversa o accontentarci di una
democrazia semplicemente più involuta.
Per superare, dunque, la deistituzionalizzazione messa in campo da processi endogeni ed esogeni, occorre agire con coraggio
sul tasto del dibattito perché il momento è del tutto particolare e le occasioni sono molteplici: la riforma della Titolo V della
Costituzione; l'applicazione del Titolo V già riformato; la modifica del Testo Unico a seguito della delega della L. 131/03 La
Loggia.
E in attesa che si individui un modello più confacente alla stabilità politica della seconda Repubblica, le Assemblee Elettive locali
dovrebbero potersi avvantaggiare dei seguenti strumenti:
a) ampliamento reale dei poteri regolamentari (paralegislativi), magari pensando a strutture ope legis, perché oggi il potere reale
nelle istituzioni comunali e provinciali impedisce, di fatto, la loro realizzazione. L'idea della cosiddetta bifidazione degli uffici,
proposta dal prof. Mangiameli, mi pare interessante e tendente a superare l'impedimento reale della subordinazione della
burocrazia al potere esecutivo;
b) messa in campo di politiche di coesione fra diversi poteri (oggi a quale organo di garanzia ci si può rivolgere per vie brevi, in
modo da avere un pronunciamento su eventuali conflitti di competenze?), così come di modelli di multi level governance
distribuiti anche per i livelli assembleari;
c) messa a disposizione di strutture per l'esercizio del controllo strategico e di quello di gestione;
d) creazione di canali per la partecipazione alla formazione delle decisioni e non solo alla partecipazione di consultazione.
Sono solo alcune idee che potrebbero essere interessanti per evitare che, come nel medioevo, si passi, in modo indolore, dai
Comuni alle Signorie. Quando, incapaci i Comuni di governare i conflitti, gli stessi facevano ricorso al Signore, consegnandogli il
loro patrimonio di democrazia, di lotte e di mediazione fra diversi interessi.
E se, nell'ordinamento attuale del disequilibrio dei poteri, qualcuno deve pensare al domani, consegnando ai posteri la sentenza
del proprio agire (si occupa, cioè, platonicamente del mondo delle idee), mentre altri vivono e governano aristotelicamente il
presente con maggiore gratificazione, almeno sia possibile loro confrontarsi con la funzione sociale che le istituzioni, di cui fanno
parte, hanno o dovrebbero avere. Quotidianamente, in modo instancabile, per evitare l'insignificanza.
Piercarlo Fabbio |